Il punto di partenza. Testo di Riccardo Caldura
Ciò che abbiamo intorno, entro cui camminiamo e ci spostiamo, muovendoci nel ritmo del corpo e grazie alla costante attenzione/distrazione dei sensi, costituisce una condizione elementare del nostro vivere non meno dell’equilibrio fra ossigeno e idro- geno. Ciò di cui si compone quest’amplissima con- dizione generale, questo orizzonte dell’esistente nei suoi più diversi aspetti, difficilmente può essere analizzato con gli strumenti della chimica o della fisica, o di qualsivoglia altra disciplina in grado di lavorare solo per settorialità specifiche. Per poter in qualche modo comprendere la realtà che ci avvolge come un fluido amniotico, per poterne acquisire consapevolezza, è necessario piuttosto uno strumento di sintesi. L’immagine, quando non è vincolata ad un qualche scopo utilitaristico, quando non serve ad una specifica funzione settoriale, sembra permette- re questa sintesi.
Rispetto all’immediatezza nella quale siamo immersi, cioè rispetto al tempo primo del vivere, l’immagine si definisce in un secondo tempo. La sua realizzazione è possibile se si (vive) fra parentesi, pur nella continuità di tutte le funzioni vitali. E’ nella fase di un vi- vere fra parentesi che si può ripensare alla relazione fra ‘noi’ e la realtà che ci avvolge, cercando quel punto di partenza da cui sia possibile riconfigurare ciò che ci circonda, così da poterlo comprendere. Ma non si tratta di una comprensione che ci per- metta di capire inequivocabilmente la natura della fluidità amniotica che ci avvolge. I diversi livelli che attraversiamo vivendo, gli strati a densità variabile in cui siamo immersi nel primo tempo del vivere senza parentesi, possono essere ripensati e riconsiderati in un secondo tempo, grazie ad un processo di sintesi, il cui precipitato finale è un’immagine, non una analitica scomposizione per (innumerabili) parti. Un’immagine la cui effettiva efficacia quale strumento per comprendere ciò che ci circonda, è dubbia: perché non analizza affatto la realtà circostante, semmai la sintetizza, quasi a rispettarne l’iniziale stratificata complessità. Per questo l’immagine ‘non serve’, nel senso che non ci permette di comprendere analiticamente ciò che ci circonda, e rappresenta piuttosto un tentativo di restituzione dell’interezza nella quale viviamo, comprimendola in un frammento, compiuto, dell’intero. Dunque nell’immagine non tanto di comprensione si tratta quanto piuttosto di compressione e di dilazione temporale, cioè di quel tempo secondo nel quale un’immagine può essere prodotta ed esperita da un artista; un tempo secondo che è anche quello nel quale quella medesima immagine può essere osservata, e ripensata rispetto all’immediatezza del proprio vissuto, da parte dello spettatore.
Il punto di partenza di Dell’Antonia per la riconfigurazione dell’esistente è assumersi nella sua condizione di soggetto senziente, il quale mentre sta vivendo mette fra parentesi quel medesimo vivere e lo osserva, aiutandosi con degli strumenti in grado di generare una certa distanza dall’immediatezza.
Strumenti atti a fornire i dati grezzi da cui può iniziare la riconfigurazione di un frammento dell’intero. Per Dell’Antonia spesso è la fotografia a svolgere questa funzione iniziale di raccolta dati, la fotografia come certificazione della non arbitrarietà del punto di partenza. La realtà che ci avvolge se non può essere analizzata, può almeno essere documenta- ta, registrata, secondo diverse angolazioni. Un altro strumento a cui egli ricorre è quella forma di rap- presentazione dell’esistente offerta dalle mappe urbane e dalla carte geografiche. In entrambi i casi (il fotografico, il cartografico) il punto di partenza è dato da una rappresentazione parziale, quanto oggettiva, di ciò che ci circonda. Inizia così un processo di allontanamento e approssimazione: la messa fra parentesi rispetto all’immediatezza del vivere; la riconfigurazione rispetto ai dati raccolti fotograficamente, o recuperati dalle cartografie. L’amnio a densità variabile nel quale viviamo immersi, è necessario venga riconfigurato, i suoi elementi ricampionati, affinché qualcosa della sua fluida complessità, possa essere restituito e ripresentato. Fra le modalità utilizzate da Dell’Antonia per opera- re questa restituzione vi è la ricerca di una qualche struttura che possa emergere come elaborazione ulteriore rispetto alla mera raccolta dati fotografica e cartografica. Nella serie iniziale di lavori di “Paesaggio staccato” (2004) le immagini fotografiche che registrano svariati elementi della realtà (strade, vegetazione, particolari urbani) continuano a traspari- re sotto le sottili linee che ridisegnano quei medesimi elementi. Ai quali viene sovrapponendosi una trama ordinata, lieve, relativamente inspiegabile perché non segue con precisione orli e profili come ci si at- tenderebbe. Si generano così delle configurazioni che presentano delle divergenze rispetto al sostrato fotografico, come se le linee ridisegnate sopra il pia- no di fondo della realtà, non si limitassero a seguire gli orli delle cose, ma rispondessero piuttosto ad una qualche logica formale interna all’immagine stessa. Il titolo della serie di lavori a cui ci si sta riferendo è assai indicativo, e trova un coerente proseguimento, sia nel titolo che nelle soluzioni formali, in “Men- tre cammino si spostano i luoghi” (2006/08), evidente richiamo alla propria esperienza percettiva e per questo tematica sondata in più sequenze di lavori. In una limitata produzione di light box il disegno dei profili di edifici ed elementi urbani sembra essere attraversato da una tensione energetica. Quasi le immagini registrassero una sorta di vibrazione di fon- do dell’esistente portandola in superficie. La cineticità del titolo, con una qualche eco di esperienze sensoriali futuriste, si traduce nella intensa vibrazione di linee sovrapposte l’una alle altre, vere e proprie ‘linee di forza’. Sia in “Paesaggio staccato” che in “Mentre cammino...”, sono presenti diverse altre soluzioni formali che è utile richiamare perché per- mettono di osservare un po’ più da vicino il modo di operare di Dell’Antonia, operare che si fonda in maniera sempre più articolata sui linguaggi e le possibilità della grafica. Ci si riferisce soprattutto al recupero della tecnica del collage, tecnica riattualizzata mediante diversi pattern grafici e soluzioni compositive che sembrano stilisticamente incompatibili, così da restituire l’apparente incoerenza degli aspetti della realtà nella quale viviamo. Utilizzo di retini tipografici, tipici di una stagione precedente all’avvento del computer, con il simultaneo ricorso alle immagini di carte geografiche, anche queste, dal punto di vi- sta dello stile grafico, datate. Il collage, cioè l’ac- costamento di parti apparentemente incongrue, permette a Dell’Antonia di restituire la complessità dell’esistente. Ma a differenza del collage di matrice dada che poteva ancora contenere una qualche presenza concreta di mondo - residui di oggetti e materiali disparati: ciò che costituiva il ‘già fatto’, il ‘già pronto’-, il collage grafico di Dell’Antonia è in- vece un puro prodotto di sintesi, una ricombinazione di file grafici e fotografici, senza alcunché della residuale matericità del mondo che compariva nelle esperienze artistiche degli anni venti. L’assenza di una qualche sostanza tangibile, di una qualche matericità, non vuol dire affatto non vi sia nei suoi lavori un affiorare di realtà, anzi. La stratificata consistenza della trama di ciò che ci circonda, nella sua sovrapposizione di ordine e disordine, struttura e amorfia, elemento e superficie sembra letteralmente riflettersi in queste configurazioni, rese formalmente possibili grazie ad una accurata e ben poco casuale elaborazione grafica dell’immagine. Perché è in questo ambito che Dell’Antonia negli ultimi anni sta ulteriormente approfondendo la propria ricerca, verso una sua sintesi in cui la rilettura di aspetti formali del modernismo, le riflessioni rispetto alla relazione fra opera e luogo, le modalità percettive inerenti l’esperienza del proprio e altrui vissuto, l’utilizzo di strumenti di registrazione e documentazione, vengono intensa- mente rivisitati – compresi e ‘compressi’ - grazie alle possibilità operative della grafica. Se alcuni anni orsono la sua ricerca si era concentrata molto su- gli aspetti e i particolari del corpo (il viso, le mani) producendo delle sorprendenti immagini dal sapore neoclassico e high tech, in tempi più recenti sono le questioni della descrizione e rappresentazione dei luoghi, della coerenza/incoerenza del mondo circostante, e delle modalità percettive attraverso cui avviene l’esperienza, ciò che lo sta impegnando. Una cartografia della quotidianità grazie alla qua- le provare a comprendere cosa ci accade mentre stiamo vivendo, attenti e distratti, il nostro qui e ora.
Pensiero lento azione veloce. Testo di Daniele Capra
La centralità della tecnologia negli accadimenti della storia, o in quello che potremmo chiamare “progresso umano”, comincia ad essere avvertita con una certa insistenza solo agli inizi del Seicento. Lo studio degli astri, della fisica, del corpo umano e, nel suo complesso, la nascita della scienza, cominciano a rendere evidenti l’importanza della tecnologia nella vita degli uomini. “La stampa, la polvere da sparo e la bussola: queste tre cose hanno cambiato completamente la faccia e lo stato delle cose in tutto il mondo. La prima in letteratura, la seconda nella guerra e la terza nella navigazione. Queste tre cose hanno causato cambiamenti epocali. Nessun impero, nessun gruppo di potere o nessuna stella sembrano avere mai esercitato così tanto potere ed influenza nelle vicende umane che queste tre scoperte meccaniche”1 scriveva Francis Bacon nel Novum Organum, avvertendo tra i primi come il sapere stesse diventando centrale nell’evoluzione della storia e come fosse indissolubilmente legato agli aspetti del potere. Questo, in certi aspetti, anticipa la teorizzazione tardo novecentesca che vede la nostra come epoca dell’”economia della conoscenza”, ove per conoscenza si intende il patrimonio tecnologico, scientifico ed intellettuale posseduto (ovviamente da paesi dal capitalismo avanzato). Se nel Seicento e nel Settecento si mette in moto quel processo a seguire in cui diventano centrali le scoperte scientifiche, è solo nella rivoluzione indu- striale che una grande quantità di persone entrano in contatto con la tecnologia, ed ovviamente il rap- porto è traumatico. Poiché la tecnologia è indissolubilmente legata ad elementi di produzione, la macchina, il monstrum, è percepito come oggetto che ruba il lavoro (causando disoccupazione) oppure è esso stesso causa dello sfruttamento del capitalista nei confronti del lavoratore, elementi contro cui si sono opposti – con esiti ed intensità del tutto differenti – il movimento luddista e quello comunista teorizzato da Carl Marx. Se per i seguaci del luddismo la macchina andava infatti distrutta, per Marx andava condivisa, resa di tutti, collettivizzata, sottraendola cioè al monopolio di un’unica persona o di un ristretto gruppo (con una logica che ritroviamo, ai nostri giorni, in molti dei gruppi di esperti informatici che realizzano software open source).
Se tecnologia fa inevitabilmente rima con macchi- na/produzione, è in realtà con la nascita della fotografia che essa diventa al servizio di un medium espressivo, senza che, ovviamente, questo sia avvertito come un vero e proprio elemento di forza. È qui fuori luogo descrivere o riassumere le peripezie, anche teoriche, della nascita del nuovo mezzo, ma nei fatti è con lo svilupparsi della chimica che i primi sperimentatori registrano il mondo grazie ad una lente ed un supporto sensibile alla luce. In quegli anni, inconsapevolmente, andava a nascere quel sodali- zio tra tecnologia ed artista (ma anche con l’uomo comune) che non smetterà mai di essere interrotto per tutto il Novecento, fino ad essere centrale nei nostri giorni. È così capitato che la fotografia, che a lungo si è nutrita di modalità e stilemi della pittura, sia essa stessa ai nostri giorni elemento imprescindibile per fare pittura; oppure che la video animazione ricorresse a strumenti elettronici per produrre effetti che fossero omologhi a quelli del disegno manuale. Nel suo complesso, seppure in modo talvolta conflittuale o non apertamente dichiarato, il rapporto tra universo espressivo e tecnologia si è ibridato e confuso, e davvero risulta difficile cogliere le differenze e le sfumature, sia nelle dinamiche che a prima vista sembrano riconducibili agli aspetti manuali che in quelle in cui la pre- senza della tecnologia pare preponderante.
Il primo impiego massiccio di tecnologia nel lavoro artistico di Giancarlo Dell’Antonia ha iniziato ne- gli anni Novanta, quando i computer sono entrati massivamente nei nostri uffici. La sua è stata una scelta naturale derivata dalla pratica del digitale e della grafica computerizzata, ma nasconde in realtà un amore smisurato per la velocità che i processi tecnologici comportano e per l’estrema possibilità concessa di manipolazione istantanea. Tutto il per- corso dell’artista è infatti all’insegna delle polarità pensiero lento e azione veloce, che si alternano in forma libera, e avvengono talvolta contemporaneamente. In particolare il processo creativo tende a procedere, nel suo caso, per successivi scatti in avanti e ripensamenti, o pentimenti; l’opera si sviluppa così in una modalità non organica e lineare, con una velocità altalenante che ricorda l’andamento delle montagne russe. È fondamentale capire quanto l’aspetto tecnologico, contrariamente a quanto si possa immaginare, più che nei contenuti o nei rapporti uomo-tecnologia, agisca sulle tempistiche esecutive: l’artista infatti è, nello stesso tempo, un ciclista che gira per la città quando pensa ed un pilota di aereo quando esegue, come se non fossero possibili velocità intermedie. Si vedono tutti i segni di questa dinamica polarizzata, soprattutto nelle opere che raccontano l’evoluzione – o, meglio, l’involuzione – della città contemporanea a partire dalle minime dinamiche percettive di un pedone. Mentre cammino si spostano i luoghi è infatti una serie di lavori, iniziata qualche anno fa e mai chiusa, che racconta le riflessioni filosofiche di un uomo cui il paesaggio sembra sfuggire a tal punto che la città si dimostra irriconoscibile (in realtà, più che una vera e propria serie, si tratta di un contenitore di osservazioni, una sorta di taccuino concettuale che raccoglie continui pensieri). Non sono ovviamente riflessioni sotto forma di testo ma vere e proprie visioni di ritagli impazziti che sfuggo- no alla retina, che sembra smarrita posta di fronte ai costanti cambiamenti. All’analisi sulle dinamiche urbane si contrappone infatti un disegno veloce, asciutto, sintetico e geometrico, che non cede alla piacevolezza ma rende ancora più acidi i contrasti, anche dal punto di vista cromatico.
Le opere realizzate accostando retini grafici di differente tipo, talvolta mischiandoli con carte geografi- che di luoghi noti, o le fotografie su cui Dell’Antonia è intervenuto disegnandovi sopra delle linee di forza o di fuga, spezzate e rigorosamente non ortogonali, spiegano invece come per l’autore sia possibile evidenziare dei percorsi estranei – da flâneur visivo – che intercettino dei sentieri di attenzione o degli accumuli complessi su cui vale la pena posare gli occhi e concentrarsi a guardare. Sono queste, infatti, opere che agiscono nell’osservatore invitandolo a rallentare lo sguardo, convincendolo a sottrarsi alla pressione dromologica cui siamo tutti involontaria- mente costretti. Fermati qui e respira, sembra dire implicitamente. Se la città corre, se i posti si muovo- no, l’artista ci invita invece a stare fermi, a muoversi con lentezza e circospezione cercando di andare oltre i disorganici e disorganizzati processi urbani che la assediano. In questa funzione, liberato dal- le ansie di rapidità esecutiva proprie della costruzione dell’opera, il mezzo tecnologico impiegato da Dell’Antonia agisce come rivelatore di lentezza, cioè come quel componente chimico che permette alla carta fotografica di mostrare ai nostri occhi l’immagine con la quale è stata impressa. In questo caso, però, ad essere mostrata, è la necessità di stare immobili. In forma paradossale, quindi, l’artista usa la tecnologia facendola apparire quasi inutile, un po’ come amava dire Nam June Paik. Se in ultima istanza il dispositivo tecnologico si è tra- sformato in uno strumento di lavoro (esattamente come qualsiasi altro) in grado di garantire un risultato caratterizzato dalla lentezza, Dell’Antonia si è concentrato negli ultimi anni a ripulire ogni forma di artificialità che esso pone in essere. Sia grazie alle capacità di controllo della composizione, che per una sua forma personale di neo umanesimo urbano, le sue opere hanno sempre più spesso posto il problema del rapporto uomo-paesaggio come una questione di pensiero e di naturalezza, ove per naturalezza si intende un sistema che prenda in considerazione la complessità delle soluzioni degli uomini che vi abitano, e non tanto l’idealizzata forma bucolica ed incontaminata che ormai non ci appartiene. Per Dell’Antonia è necessario quindi ripensare la contemporaneità, non in forma utopistica ma cercando euritmie, simmetrie, ordine geometrico. Dalle mappe che rappresentano una città con la visione aerea, dalle strade e le vie di comunicazione che si intrecciano è necessario cercare un ordine nuovo, un sistema che prenda cioè in considerazione che la dimensione del vivere, anche negli aspetti di ordine percettivo e geometrico, non si può abbandonare al caso: vale la pena avere delle micro-utopie, che siano in grado di traghettarci dal vuoto attuale ad una forma collettiva responsabile, anche dal punto di vista estetico. Ecco quindi, nel video Cityflower, che le piante delle città si animano come dei fiori, sbocciando ed aprendosi ad inedite corrispondenze; ma, soprattutto, vi è un ritmo, una composizione, un benessere che sta nell’essere consapevoli che la città è pensata.
Disconnected Landascape è una serie di tavole di legno che propongono porzioni staccate di un tracciato urbano (il titolo dell’opera allude all’assenza di un ordine chiaro e comprensibile tra i blocchi degli edifici), per i quali l’artista ha recuperato la pratica della pittura, una modalità raramente frequentata da Dell’Antonia negli ultimi anni. Se sembra superfluo dire che i tempi e le modalità pittoriche sono all’antitesi si di un lavoro tecnologico, tali risultati nascono dall’elaborazione di mappe digitali che sono state manipolate semplificando e adattando i tracciati. Aspetto tecnologico e manuale coesistono cioè in forma complementare: l’arancione ricopre il legno, ma è un colore a tutti gli effetti industriale. Natura e tecnologia sono, in questo caso, termini fintamente in opposizione. Agli artisti (ma anche agli uomini comuni, come ricordava Joseph Beuys) spetta il compito di prendere parte a quella grande scultura e architettura sociale che è la città. Partecipare ad un atto creativo, immaginare una forma per i nostri spazi, è un gesto creativo e democratico. Pensare e re-immaginare l’estetica dei nostri luoghi, come fa Dell’Antonia, è invece un’irrinunciabile forma di partecipazione politica.
QUELLO CHE RESTA Duilio Dal Fabbro
Fotografia, disegno, pittura, composizione, video installazione, programmi elaborati di grafica digitale ottenuti con l’uso della tecnologia, sono per Giancarlo Dell’Antonia, le basi della sua complessa ricerca.
Artista multimediale e designer di professione è abilissimo nella documentazione del territorio, dei suoi mutamenti e delle possibili trasformazioni con riflessioni sulla percezione dei luoghi e l’influenza dei media. Insofferente alle deturpazioni degli spazi urbani e naturalistici, utilizza i propri mezzi espressivi per nuove visioni e coerenti pianificazioni fondate sul rispetto dell’ambiente, a favore del vivere quotidiano.
Progetti, mappe, opere sonore, sono state esposte in diverse mostre internazionali, con il sostegno di qualificate gallerie come la Galleria Alberta Pane di Parigi, Galleria Biagiotti arte contemporanea di Firenze e la Galleria Romberg arte contemporanea di Roma-Latina, conseguendo apprezzamenti e consensi da parte del pubblico e della critica per le indagini originali e innovative.
Dopo alcune visite nello studio di Giancarlo Dell’Antonia per conoscere le opere e i metodi utilizzati, sono rimasto talmente colpito dai risultati ottenuti da promuovere una sua mostra personale nella nostra (già collaudata) Galleria Comunale di Vicolo Giardino.
Non è facile cogliere e comprendere le novità di un linguaggio lontano dagli stilemi dell’arte tradizionale, frutto delle più moderne e attuali acquisizioni in ambito tecnologico. Questa mostra, visitabile dal 18 settembre al 16 ottobre 2011, vuole essere un impulso per apprendere, approfondire e conoscere i molteplici e variegati linguaggi dell’arte contemporanea. Sarà un’ulteriore occasione per conoscere nuovi percorsi, nuove spiegazioni artistiche che conducono nei territori della modernità, dove il pensiero si trasforma in arte tramite elaborati sviluppi tecnologici.
Questa straordinaria mostra, organizzata dall’Amministrazione Comunale con l’Assessorato alla Cultura e la Pro Loco, è accompagnata da un esauriente catalogo, con saggi di presentazione critica del prof. Riccardo Caldura curatore e docente di Fenomenologia delle arti contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Venezia e del giornalista, critico e curatore indipendente Daniele Capra. Un plauso e un sentito ringraziamento vanno ai nostri enti Amministrativi, alla Pro Loco e agli sponsor, in particolare all’editore De Bastiani, per la volontà dimostrata, nonostante le difficoltà del momento, nel sostenere e diffondere i nuovi linguaggi dell’arte per la crescita culturale della nostra comunità presente e futura.