Disconnected Landscape, congiungente due punti, il suo inizio e la sua fine, detti estremi. 2015 | 2016
Testo di Alfredo Dall'Amico
“Disconnected Landscape” ovvero “Paesaggio scollegato”… una necessità più che un’intervento espositivo, una necessità interiore e incontenibile che obbliga l’autore, nel divenire della sua ricerca espressiva, a una modalità polimorfa e discontinua seppure, da sempre, fedele al mezzo digitale… è la cifra, l’unica, che permea e caratterizza in modo inequivoco l’opera di Giancarlo Dell’Antonia.
Necessità di comunicare sensazioni complesse, complesse e variabili ma intensamente introitate, nonostante il loro effimero e rapidissimo manifestarsi. Estremamente arduo il compito di trasmettere una sensazione, una preoccupazione o, se vogliamo, una riflessione scaturita in un tempo infinitamente piccolo, quasi non misurabile, ma sufficiente ad incidere in profondità la sensibilità dell’artista.
Ed è forse questa profondità che Dell’Antonia cerca e rievoca nel segno che amplia l’azione meramente fotografica… che non solo “va oltre” ma “va dentro”, penetra il soggetto/oggetto che ha prodotto il pensiero… i “segni” di Dell’Antonia come i “tagli” di Lucio Fontana… il concetto spaziale o il cercare uno spazio altrove è il tentativo di dare soluzione al problema, un problema che assale proditoriamente con un’aggressività e una brutalità dalle quali non c’è difesa che non sia “il tempo del silenzio e della riflessione”.
Il “Paesaggio materno”, che Luisa Bonesio ci descrive in modo molto convincente, cioè quell’insieme di condizioni che possono venire, entro certi limiti, interpretate, selezionate, realizzate o sottolineate diversamente a seconda della cultura che le assume, viene costantemente violato.
Ecco allora sorgere degli interrogativi ai quali da sempre non si sa o non si vuole trovare risposta; ne valga uno per tutti: «Se nasco in un luogo preciso e definito che diviene il mio “paesaggio materno” e quel paesaggio muta e si deforma nel tempo… come posso io riconoscermi e mantenere integra la mia soggettività?»… Non vi è risposta, ma nell’opera di Dell’Antonia è implicita una sottile provocazione, mai urlata né esibita scompostamente, sempre e solo sussurrata con discrezione ed equilibrio; il bisbiglio è rivolto a tutti, ma il concetto può essere colto solo da chi presta attenzione e vuole a sua volta riflettere sull’interrogativo… è una vibrazione, una vibrazione che si fa quasi suono e che ci accompagna verso uno “spazio altro”, verso un “non luogo”, verso una profondità dell’intelletto, nel senso di capacità di comprendere, che solo raramente riusciamo a raggiungere.
La ricerca di Dell’Antonia non si arresta, per trovare una risposta esce dal “Paesaggio”, che è sempre una costruzione culturale identitaria ristretta, e si allarga al “Territorio” i cui dati oggettivi, morfologia, clima, vegetazione ecc. rappresentano la “Tradizione” e costituiscono le condizioni di possibilità, che originano il “Paesaggio” o come già detto il “Paesaggio materno”, ed ecco allora le mappe sovrapposte a luoghi… mappe stilizzate, spezzate, scomposte e disassemblate… segni ingigantiti… linee trasformate in superfici, perlopiù monocrome, dal minio delle quali affiora nitidamente il colore originario del supporto ligneo, o nere, quasi citazioni involontarie dell’antica ceramografia greca, atte a testimoniare con la disposizione orizzontale e la sovrapposizione fisica ad altre immagini rappresentative dell’effimero, quali le pagine di un “magazine”, la loro prepotente e disorientante invadenza.
Nella quotidianità, assolutamente non banale, né tantomeno scontata, dove tutto è apparentemente noto, la deambulazione, “la passeggiata”, consente sempre nuove visioni e già qualcuno l’ha elevata a forma d’arte “Walkscapes”, vale a dire “camminare come pratica estetica in quanto atto primario nella trasformazione simbolica del territorio, strumento estetico di conoscenza e di trasformazione fisica dello spazio attraversato, che diventa intervento urbano”… ma la realtà è feroce, l’accelerazione esasperata del divenire modifica, demolisce, amplia, disgrega, disomogenizza e disorienta… tutto è nuovo solo per un attimo! Poi si cambia, si rovina, si distrugge e si getta, quasi un foglio accartocciato… “Perimetri inconsapevoli”… ma il fatto merita un più attento esame, per cui l’intervento torna alla pittura, tecnica più lenta, che consente tempi di riflessione più lunghi, volutamente imprecisa, quasi sporca, pittura a sé, come nuova e originale, forma sovrapposta all’immagine del solito “magazine”, a sua volta effimera e sopraffatta da una nuova forma, nata già vecchia e ormai da buttare.
Vien da pensare che sia il “nomos” l’oggetto primo della ricerca di Dell’Antonia, “nomos” nell’accezione greca del termine, ovvero “la prima misurazione dalla quale derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione del suolo, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria” che Carl Schmitt concettualizza nel suo “nomos della terra” definendolo come l’espressione che meglio si presta a rendere l’idea del processo fondamentale di unificazione, di ordinamento e localizzazione e al radicamento primigenio del diritto non “sulla” terra, bensì “nella” terra.
Quella sfocatura, quella nebbia digitale che rende il tutto indefinito nei lavori che vedono degli alberi come soggetto prioritario, non confonde, bensì accende la fantasia consentendo ad ognuno di vedere “altro” ed “oltre”…
è il tentativo di “rialzare la testa”, come indica lo sviluppo verticale, e di riappropriarsi idealmente di quello spazio, che proprio perché indefinito e confuso ci appartiene e ci identifica, è la modalità indicata da Dell’Antonia per rivendicare il diritto “nella” terra e il radicamento primigenio.
Arte non facile quella di Dell’Antonia… anche se il grafico e il designer che coesistono in lui sono una presenza vigile e costante che non transige, estremamente severa nel calibrare segni e contrasti, superfici e composizioni d’insieme, che paradossalmente risultano quasi musicali nel loro assoluto silenzio e stupendamente armoniche nel loro contenuto di cromie attenuate ma rigorosamente definite.
Non c’è possibilità di compromesso e Dell’Antonia rifugge dai luoghi comuni, dalle provocazioni sguaiate che puntano tutto sullo choc per attirare l’attenzione dei media. Credo di poter affermare, alleandomi con Marc Fumaroli, Mario Perniola, Jean Clair e tanti altri critici che «la cosiddetta arte contemporanea esprime solo l’orgoglio smisurato di una ristretta élite che per esibire la propria ricchezza usa, oltre alle ville e agli yacht, opere dalle quotazioni astronomiche» e ancora «che “i Michelangelo della tassidermia” o “i campioni dell’orrore lubrico” sono i perfetti rappresentanti di una deriva che trasforma l’arte in una forma esibizionistica d’intrattenimento, dominata dal denaro, dal marketing e dall’estetica del kitsch»… Dell’Antonia non è nulla di tutto ciò!
Parafrasando Friedrich Nietzsche, che attacca in maniera critica quella che considerava la vacuità morale dei pensatori del suo secolo, la mancanza di senso critico dei filosofi e la loro passiva accettazione del sistema… auguriamoci quindi che, anche grazie agli artisti come Dell’Antonia, “al di là di ogni bene e di ogni male, vi sia il preludio positivo di una filosofia del divenire”.
Ebbene… le opere di Dell’Antonia entrano in punta di piedi… dopo aver bussato… non urlano e non urtano… sono bisbigli sommessi, ma sanno trovare la strada del pensiero per depositare concetti/oggetti di riflessione.
“Concetto” è inevitabilmente il contenuto, il messaggio implicito, e la modalità comunicativa di Dell’Antonia è di fatto concettuale, ma nei suoi lavori non si può affatto sostenere che il concetto e le idee espresse siano più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa, come recita la norma fondante dell’arte concettuale, poiché come già affermato più sopra, la sua professione di designer e grafico non gli consente tale deroga; e il suo agire, indiscutibilmente legato ad un rigore formale e ad un equilibrio delle linee e dei timbri, non può che originare un effetto esteticamente appagante.
Vero è che la semplificazione estrema della struttura e delle modalità esecutive, la riduzione del linguaggio espressivo alle sue condizioni primarie, all’essenzialità della geometria… lo avvicinano, a volte lo collocano, nella “minimal art” o “minimalismo” che dir si voglia, ma non si può assolutamente asserire che la sua opera sia caratterizzata dall’aspirazione al distacco emozionale, all’antisoggettività e alla freddezza, o che proponga un’enfasi specifica nei confronti dell’oggetto e della sua fisicità, come pretende il minimalismo, perché il risultato non è “oggettuale”, vale a dire percepito in modo univoco, ma al contrario “soggettuale” in quanto filtrato da un coinvolgimento emotivo che lascia libero arbitrio all’osservatore/spettatore.
Ma, al di là di ogni altra considerazione, non sono le etichette che aiutano la comprensione, anzi spesso confondono, costringono e banalizzano… forse potremmo coniare per lui un nuovo termine: “arte del coinvolgimento silente” o meglio, rendendo omaggio alla capacità di sintesi che gli è peculiare, “ARTE SILENTE”, proprio perché le sue opere, in quanto visive, sono “faticose” e “mute”, richiedono attenzione, disponibilità e tempo… la disponibilità alla riflessione e il tempo del silenzio.
All’ombra simile ad un sogno. Testo di Eros Perin
"Un’altra volta ti rivedo ma, ahimé, non mi rivedo! Si è rotto lo specchio magico in cui mi rivedo identico,in ogni fatidico fragmento vedo solo un pezzo di me un pezzo di te e di me."
Fernando Pessoa Lisbon revisited

...entro nello spazio espositivo. Una lunga sala sui cui lati sono disposte a blocchi di quattro fotografie di luoghi che riconosco e rimandano ad immagini presenti nella mia memoria, fissate da percorsi già fatti, o forse no, nella mia città.
Curiose figure geometriche si staccano silenziose da una tavola per ripresentarsi identiche, e perciò stranianti, su quella successiva: in ridondante dialogo. Guardando meglio mettono in crisi la comunicazione stessa oscurando come presenze aliene la parola scritta, testi che si intuiscono voler dire qualcosa sull’arte contemporanea e i suoi modi di esposizione. Profili di vie di comunicazione lasciano vedere le trame del legno, materiale che si annulla nei monocromi come il cemento abusato nel nostro paesaggio.
In un passo famoso ed estremamente bello dell’Odissea, il racconto per antonomasia del viaggio di ritorno verso casa - all’ombra simile o a un sogno - il corpo di Anticlea, madre di Ulisse, benché vividamente presente alla sua vista nell’Erebo, si sottrae senza possibilità di sorta al suo tentativo di abbracciarlo. Penso che le immagini, ogni immagine, sia proprio così. E allora il mio sguardo si riposa sulle foto appese e mi sembrano proprio simili alle ombre e ai sogni. Hans Belting ci ricorda che “nessuna immagine visibile giunge a noi senza una mediazione.
La loro possibilità di essere viste dipende dalla specificità del medium in cui si trovano che ne regola la percezione e determina l’attenzione dello spettatore”: mediazioni. Vedo e comprendo, forse, i luoghi che esse mi presentano e mi basta guardarle per avvicinarmi e capirle per ciò che sono. Il medium digitale le rende sicuramente eteree, algide, forse, ma non per questo meno invitanti. Da queste ombre mediate e fissate mi lascio smuovere e da questi sogni mi faccio trascinare in giochi che toccano i miei affetti e mi colpiscono orientando i miei pensieri.
Come il viaggiatore Ulisse, l’artefice di queste foto non può essere toccato e neppure si lascia toccare da ciò che ha visto. Anch’io quale passeggero clandestino sulle sue tracce visive depositate in questa stanza sono immune da ciò che lui mi fa vedere e che attraverso di lui rivedo. Immagini che sembrano continue reindividuazioni di un reale continuamente reimmaginato.
L’oggi dell’immagine è l’ipertrofismo, immagini di immagini di immagini in un continuo senza fine. Come il canto delle sirene suscitano: meraviglia e magia, affabulatorie e seduzione soggiogante. Nel lavoro di Dell’Antonia l’immagine digitale affascina senza sedurre, è piuttosto il risultato di una libertà delle forme.
Perché se è vero che siamo di fronte anche qui e ora ad un dispositivo creato da Dell’Antonia e se ogni dispositivo come tale è inscritto in un gioco di potere legato a dei limiti del sapere che derivano da esso e nella stessa misura lo condizionano, il gioco, l’urgenza di questo dispositivo è di essere esploso, di essere fatto saltare dallo spettatore attraverso un ritorno riflessivo sulla realtà, siano le immagini esposte già state esperite nella realtà oppure no. La cifra dell’azione artistica di Dell’Antonia, il suo sguardo sui luoghi, sul mondo è la discrezione, che è l’arte di scomparire al mondo. E discreti sono i suoi lavori che si sollevano da ogni forma di reciprocità, togliendosi dalla dialettica misera del riconoscimento e della seduzione.
Attraverso di esse il nostro sguardo, il nostro pensiero sembra uscire per un istante nell’esperienza di un tempo effimero, non prolungato che basta a se stesso, che produce immagini istantanee.
Al contempo, questo sguardo discreto mostra un’esperienza incredibilmente controintuitiva: scomparire al mondo non è un atto di arroganza, ma di estremo amore verso il mondo e le sue apparenze. E’ una questione di prospettiva, un movimento che fa il vuoto. Ma questo vuoto, questo annullare qualsiasi forma di legame e reciprocità, proprio nel momento in cui non c’è più un sé né altro, ecco che ciò che ci sta di fronte, il reale ci appare multiplo, senza un centro di gravità, distante, percorso da mille linee di fuga che si diramano verso l’infinito. Quelle linee che partono potenti dai tetti delle abitazioni, dai muri, producono vibrazioni impercettibili che si ritrovano nei video di Dell’Antonia o nei lightbox per quanto riguarda il pensiero sulla geometria e i volumi e trovano il controcampo cromatico nello stirarsi vegetale degli alberi che rappresentano l’esigenza delusa di un rimettere continuamente a fuoco. Con uno spostamento ontologico minimo, debole, ma deciso e decisivo rispetto al contemporaneo, Dell’Antonia sembra spostare l’attenzione di immagini e cose, ombre e sogni, verso le relazioni che essi stessi producono.
Un’attenzione, un amore verso le apparenze senza che ci sia nulla che debba apparire come loro fondamento. Rimasticando un’idea dell’Henry James del racconto Nella gabbia, forse per Dell’Antonia la realtà non può più essere presa, fotografata, perché non c’è più nulla da
nascondere.
Se la realtà visibile e percepita è oggi quella dell’attrazione, prendendo a prestito un concetto di Ejzenstejn, cioè il momento aggressivo finalizzato a esercitare un effetto sensoriale psicologico sullo spettatore. Il montaggio di Dell’Antonia segue un’altra logica che tiene in maggior rispetto un approccio naturalistico e narrativo, che non vuol agire sulla psiche degli spettatori procurando stimoli che non riusciamo a fermare. I frames qui si scollegano e ci scollegano da questa realtà iper che non prevede mai la parola the end e sembrano piuttosto condurci verso un silenzio della foto, una pausa dalla nostra esperienza quotidiana.
"La foto è il solo modo di percorrere la città in silenzio, di attraversare il mondo in silenzio "
Jean Baudrillard
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